Il seguente articolo di Luisa Lombardo è tratto da:
CalabriaonWeb.it del 03.06.2015 (clicca qui per il link diretto )
“La Calabria ha sempre avuto la cultura delle grandi opere. Dopo Taranto, il grande centro siderurgico di Gioia Tauro. Oggi cultura non ce n’è, e non c’è neanche il click del passaggio dall’idea all’applicazione. Questo lo pagheremo e lo paghiamo in maniera sconvolgente. Chi è che oggi in Italia fa un discorso sulle grandi infrastrutture? Si registra una sostanziale incapacità di lavorare su questi argomenti”.
Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis, è una delle intelligenze più lucide del Paese. Invitato a Reggio Calabria dall’associazione degli ex consiglieri regionali per discutere di Mediterraneo, l’abbiamo intervistato.
Il Censis si è occupato di Mediterraneo con importanti analisi e ricerche. Noi cogliamo un rinnovato generale interesse delle istituzioni e delle università verso il Mediterraneo come potenziale di sviluppo e come idea alternativa al modello mitteleuropeo che, secondo taluni, ha fallito. Qualcuno addirittura si è spinto a dire che il futuro è al sud e che il Mediterraneo salverà l’Europa.
Lei cosa ne pensa?
Che siamo molto lontani da tutto questo, perché le condizioni di partenza sono molto lontane; perché l’Europa, ha un meccanismo di autopropulsione che il Sud non ha. E’ una macchina che funziona e va avanti. Mentre al Sud bisogna fare le rivoluzioni di primavera, bisogna esercitare la volontà politica, molto spesso contestativa rispetto alla macchina potente dell’Europa. Al nord c’è una procedura quasi spontanea, che qui (al Sud, ndr) al contrario, è tutta da costruire. In secondo luogo, negli ultimi 20-30 anni, questa storia del Mediterraneo ‘ha macinato parole’ – detto brutalmente. Documenti dell’Europa, dei singoli Paesi, Comitati a 5, promemoria, procedure d’accordo. Ma di fatto, alla fine, non vi è stato nulla. Il riequilibrio tra due mondi si fa solo se ci sono dei protagonisti. La stessa Europa nasce da protagonismi, diversi e lontani. Pensiamo ad Adenauer che aveva perso la guerra, a De Gasperi che aveva perso la guerra, e alla Francia che invece l’aveva vinta. Eppure l’Europa è stata fatta, perché c’erano dei protagonisti validi. Oggi i protagonisti sono tutti di medio – basso livello, e anche poco attivi. Consideriamo la Grecia di oggi e a questo protagonismo da disperati. Pertanto, non possiamo pensare che un riequilibrio Nord-Sud nel Mediterraneo sia possibile a breve termine. C’è un problema certamente decisivo per il prossimo futuro: come nel rapporto fra Mediterraneo e Nord si porrà il problema religioso, il problema valoriale. Cosa succederà, se nel Mediterraneo si affermerà una cultura islamica, anche moderata. E c’è ancora un problema di ripensamento, degli atteggiamenti, della cultura stessa, una cultura della città e dell’imprenditorialità minuta e dei rapporti con la globalizzazione. E quindi c’è ‘da macinare dentro’, c’è ‘da ruminare’ una nuova cultura, dei nuovi protagonisti e delle nuove logiche di azione. Oggi, con un accordo col partenariato euro-mediterraneo non si va da nessuna parte.
Ecco considerata questa distanza effettiva, su quali piani potrebbe essere realizzata una integrazione a breve termine. Ci sono dei settori che, secondo lei, potrebbero in qualche modo essere avvantaggiati rispetto ad altri? Anche considerate le dinamiche in atto.
Di solito, quando si parla di integrazione, la prima cosa che viene in mente è la scuola, l’università. Sembra più facile. Anche le distanze sono meno pesanti. Però, il rischio è che diventi solo retorica. Se si parlasse, al contrario, degli Istituti tecnici, cioè della formazione medio-bassa che oggi serve per fare piccoli imprenditori– ci crederei di più. Gli stranieri in Italia fanno i piccoli imprenditori. I rosticcieri o i muratori. Però, formarli a livelli più alti, potrebbe essere importante pure per noi italiani e per un’ipotesi di sviluppo anche locale. Però, io rifiuto sempre l’idea che un primo livello di collaborazione sia sul piano dell’università. Preferisco magari ragionare di più sui meccanismi imprenditoriali e mercantili perché lì c’è sostanza. Se io opero incentivi alla piccola impresa, poi posso verificare se la strada funziona o meno. In genere la modernità di oggi, come anche il sistema economico che abbiamo, si fidano troppo dell’immateriale. Sono convinto invece che, nei momenti in cui uno sviluppo deve partire, la base è materiale. Certo, il capitale umano, serve, la ricerca scientifica serve, ma la partenza è quella. Il problema vero per i Paesi del Mediterraneo è che nella cultura moderna, lo sviluppo è andato sempre per contiguità territoriale, ‘non salta il mare’. Come dimostrano la Turchia ed il Marocco. Il futuro del nostro mondo è l’Africa. E l’Africa deve essere aggredita con una cultura di contiguità territoriale.
L’Asia l’ha già capito. Ha fiutato e si è orientata verso questa nuova frontiera?
Accade quando c’è una libertà di potere. I cinesi hanno capito che in Africa si giocherà la geopolitica dei prossimi cento anni. Per questo, comprano terre, costruiscono autostrade. Oggi l’autostrada fra Nairobi e Malindi è fatta con il contributo del Governo cinese, lo riportano le targhe ivi affisse. Ci sono meccanismi di geopolitica che hanno bisogno di rapidità e di possibilità. Noi non riusciamo neanche a fare un viadotto, figurarsi se riusciamo a dire: interveniamo in Africa in nome della contiguità territoriale. Ci manca questa capacità di penetrare sul territorio prima ancora che nella testa della gente. I cinesi fanno esattamente il contrario.
Ma perché l’Africa rappresenta il futuro, perché investire lì?
Perché è un mondo vuoto.
Quindi va riempito?
migranti 2Sì, va riempito. E poi ci sono anche risorse. L’Africa era stata colonizzata perché c’era il petrolio, c’erano i diamanti. C’era tutto nell’Africa. E poi, è il centro di tutto. Perchè dall’India all’Africa c’è meno che da Berlino all’Africa. Gli americani sono afroamericani non soltanto per Obama, ma perché in fondo hanno una cultura che viene da lì. Oggi, inoltre, non ci sono grandi spazi. Lo sviluppo mondiale ha bisogno di grandi spazi e anche di grandi mercati. Se vediamo i dati del nostro rapporto, i consumi in questa zona del Mediteranno stanno aumentando. E’ un popolo di consumatori che si affaccia. Livelli di relativa agiatezza arrivano. Noi dobbiamo fare una politica territoriale. Perché non possiamo occuparci di Sud Africa o di Kenia senza fare i conti con la Libia. Per fare politica con tutta l’Africa bisogna prima fare i conti con i vicini.
Ma visti i conflitti che ci sono, è difficile pensare anche alle varie problematiche che interessano questi territori…
Prima di tutto occorrerebbe avere un po’ più di intelligenza. Perché buona parte dei guai che stiamo soffrendo sono dovuti a nostri errori. Non vado alle Crociate, per carità, né penso alle colonie. Sono meno di 40 anni che abbiamo liberato l’Algeria da un regime coloniale. Eppure abbiamo fatto qualche errore: la guerra in Iraq o la guerra alla Libia, chiunque l’abbia voluta. Poi ci ritroviamo, il feedback, il rinculo. Quindi, non si può dire: oddio arrivano queste difficoltà, se le hai create. Siamo andati a rompere quel tanto di equilibrio che c’era. Dobbiamo prima di tutto saper fare politica. Cosa che onestamente, l’Europa sa far sempre meno, proprio perché confida troppo nei suoi processi automatici: il Pil, il debito, il deficit, il 3 per cento. Teniamo in funzione la macchina, ma l’intelligenza suppletiva non c’è.
In questo modello di sviluppo e superando gli attuali problemi di geopolitica, quale potrebbe essere il ruolo dell’Italia e della Calabria visto che il Sud è rimasto sempre al palo?
E’ difficile dirlo per le ragioni che abbiamo detto prima. Quello che l’Italia ha avuto sempre in Africa: piccola impresa e grandi infrastrutture. La grande impresa non ce l’abbiamo più neppure per noi. Tronchetti non c’è più, Agnelli non c’è più, Olivetti è morto, Pirelli è morto. La piccola impresa c’è ed è quella che noi vediamo sul territorio italiano, più consonante con questa gente. Il piccolo manovale che diventa piccolo imprenditore edile, è una ripetizione di quanto aveva fatto il marchigiano di tanti anni fa. Questo tipo di cultura, secondo me, è quello su cui si può lavorare di più. Il potenziale futuro di queste regioni meridionali è quello di avere una moltiplicazione di piccole imprese. Non sarà di tessile o di maiolica, ma sarà di digitale, di applicazioni particolari, più moderne. Il ragazzo meridionale oggi non ha il digital divide così alto come era il meccanic divide di una volta. Però quella è la strada. La strada è quella di fare piccola impresa. Se continuiamo ancora a fare grandi interventi o grandi stanziamenti, non ce la faremo. E questo, secondo me, anche come sfida collettiva, sfida di massa, agli africani del Nord. Non so se la Calabria può dar qualcosa. Ma avendo questa possibilità di pensarsi come quella che lega il suo futuro a quello delle piccole medie imprese, può essere un parametro di associazione con le realtà meridionali. Ed ancora penso alle cose che l’Italia ha saputo fare in Africa. Penso alle grandi infrastrutture, alle grandi bonifiche degli anni ’30. Le abbiamo esportate in tutto il mondo le aziende che facevano dighe e strutture di bonifica. Adesso sono in crisi anche loro. Quelle stesse ditte ora fanno le autostrade. Con un mercato italiano che si riduce, è evidente che non possiamo andare all’estero. Cosa succede per la Calabria in particolare? La Calabria ha sempre avuto la cultura delle grandi opere. Dopo Taranto, il grande centro siderurgico di Gioia Tauro. Oggi cultura non ce n’è, e non c’è neanche il click del passaggio dall’idea all’applicazione. Questo lo pagheremo e lo paghiamo in maniera sconvolgente. Chi è che oggi in Italia fa un discorso sulle grandi infrastrutture? Si registra questa sostanziale incapacità di lavorare su questi argomenti.