CONVEGNO

Per lo sviluppo dell’Italia a partire dal Mezzogiorno

Introduzione seconda sessione lavori di Stefano Arturo Priolo

Napoli 13 e 14 marzo 2013

Abbiamo voluto questa iniziativa – come ha ricordato il Presidente Bianco – per riproporre all’attenzione del Paese, in particolare al sistema politico-democratico, il secolare problema del Mezzogiorno d’Italia, afflitto, dentro la generale crisi del Paese e dell’Europa, da un progressivo arretramento economico e sociale che, a parole, tutti hanno detto e dicono che occorre fermare, sostenendo che l’Italia non potrà crescere se con essa non crescerà il Mezzogiorno, da qui il titolo che abbiamo dato alla nostra riflessione.

I riflettori che noi riaccendiamo oggi sul problema, non possono non tenere nel dovuto conto alcuni vincoli ed alcune ragioni storiche dell’insuccesso delle politiche messe in campo che è, dunque, corretto richiamare alla memoria, per non dimenticare e non ripetere gli errori. Ne voglio ricordare alcuni senza alcuna pretesa di completezza.
Il primo. La cessione di sovranità  all’Unione Europea da parte  degli Stati aderenti, avvenuta sulla base dei Trattati sottoscritti,  che l’Italia – uno dei sei Paesi fondatori ha fortemente voluto – obbliga, oggi più di ieri,  a tener conto che il primo livello nel quale  occorre agire per dare speranza di avviare a soluzione il problema che oggi prendiamo in esame, è quello delle politiche europee e, dunque, è Bruxelles (Consiglio e Parlamento Europeo, Commissione Europea) la prima trincea da presidiare, nella quale combattere, al fine di creare i presupposti di ordine politico e finanziario per vincere una battaglia, quella per lo sviluppo del Mezzogiorno, divenuta, ormai, secolare.
Il secondo. La storia dell’intervento straordinario in Italia per attenuare e assorbire con la gradualità possibile il divario socio-economico Nord-Sud, ricorda che il considerevole sforzo economico messo in campo sino ad oggi dal Paese in favore del Mezzogiorno, non ha raggiunto l’obiettivo più volte programmato e sperato, per la semplice ragione che l’intervento straordinario è divenuto presto sostitutivo dell’intervento ordinario, sicché è valso soltanto a fermare il divario per alcuni anni, ma in nessun caso a ridurlo, se non nel periodo del “miracolo economico italiano”.
Il terzo. Con il trascorrere del tempo, la mancata combinazione sinergica tra risorse economiche straordinarie ed ordinarie, ambedue di provenienza statale, si è ripetuta quando l’intervento straordinario da parte dello Stato è praticamente cessato, sostituito dai fondi strutturali di provenienza comunitaria.
Il quarto. L’avvento delle Regioni a statuto ordinario, che aveva alimentato la speranza di una maggiore efficienza ed efficacia della governance politica e che ha introdotto in Italia un modello di governo in parte decentrato ed autonomo, dando attuazione alla parte II^ – Titolo V° della Costituzione, alla prova dei fatti ha rivelato i suoi limiti e la sua inefficacia, anche o in massima parte dovuta, alla ratio con cui sono nate le Regioni – più che una riforma da realizzare, una risposta alla domanda politica di partecipazione alla governance del Paese – ed al criterio che ha presieduto alla organizzazione della burocrazia regionale – piuttosto che una selezione basata sul merito, una scelta fortemente influenzata dal clientelismo – una responsabilità da ascrivere per intero alla classe politica regionale.
Il quinto. Nella vita amministrativa delle Regioni meridionali, con qualche eccezione, si é pesantemente inserita la criminalità organizzata, con i devastanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti, essendo considerato, ormai, questo fenomeno non più esclusivo del Mezzogiorno. Una situazione che obbliga a considerare questa pesante penalizzazione del nostro territorio anche a Bruxelles, con interventi specifici mirati, a valere sia nei programmi nazionali (PON) che in quelli regionali (POR).
Il sesto. A partire dalla metà degli anni ’90, la questione meridionale è sparita dai programmi di governo del Paese ed i problemi del profondo divario tra Nord e Sud sono stati consegnati al Nord per il Nord ed al Sud per il Sud. Il Nord, che aveva già negato alla questione meridionale valenza nazionale, ha subito reclamato i suoi diritti, in nome di una presunta “questione settentrionale” che aveva consentito al Governo di centrodestra di pagare persino le quote latte dei produttori padani e la cassa integrazione con i fondi FAS che, per definizione, dovevano essere spesi, invece, in favore dello sviluppo delle “Aree sottoutilizzate” del Paese.
Al Sud tende a venir meno la coesione territoriale ed il sistema politico meridionale reagisce frammentandosi ulteriormente ed indebolendosi, forse per poter meglio seguire i potentati politici di turno e  porsi al loro servizio, dimenticando che la comune condizione ed il comune destino di ponte sul Mediterraneo di collegamento tra Europa ed Africa, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, richiederebbero una forte coesione politica e sociale, la vera ed autentica forza capace di conseguire il risultato scritto negli artt. 3,4 e 5 della Costituzione della Repubblica Italiana, un presupposto ad oggi nemmeno prefigurato.
Il settimo. E’ sparita anche dall’Agenda Italia la “questione industriale”, immaginando che il Paese, in particolare il Mezzogiorno, possano pensare di superare l’azzeramento del pil (gradualmente, purtroppo, conseguito nell’ultimo decennio) e la successiva recessione (ormai al terzo anno), senza occuparsi dello sviluppo industriale e di selezionati e mirati programmi di rafforzamento della ricerca finalizzata all’innovazione. Tutto questo come se guardando alla dimensione record per quantità e qualità raggiunta dai livelli di disoccupazione in generale, giovanile e femminile in particolare, si potesse fare a meno di implementare e sostenere la crescita del settore industriale e dei fattori e risorse necessari per conseguirla.

Una questione industriale che ha connotazioni diverse a Nord al Centro ed al Sud dell’Italia.
Mentre al Nord prevale tuttora la fase di ristrutturazione dell’apparato industriale esistente, da condividere, come vuole la Costituzione, quanto a responsabilità, tra governo del Paese e grandi forze sociali, al Sud prevale l’esigenza di mettere in campo una politica mai seriamente organizzata, mirata a promuovere la valorizzazione delle cospicue risorse endogene, per creare crescita ed occupazione qualificata, capaci di avviare il circuito virtuoso dell’economia e di generare   reddito e lavoro.
Per ottenere il risultato sperato necessitano almeno tre azioni, contestuali e sinergiche:

a.    Promuovere mediante mirate agevolazioni, anzitutto, nuova imprenditoria nei settori della “green economy”, dell’agro-alimentare, della Cultura, dei Beni Culturali e dell’accoglienza turistica;

b.    Investendo al Sud le necessarie risorse per il potenziamento della logistica, indispensabile presupposto di base per rompere l’isolamento del Mezzogiorno dal più ampio contesto euro-mediterraneo, ponendo fine ad una storia penalizzante; storia antica ben espressa dal detto “ Cristo si è fermato ad Eboli”;

c.    Promuovendo la crescita della piccola e media industria partendo dall’esistente, specialmente nelle produzioni ad intensa capacità occupazionale, per dare graduale risposta alla smisurata domanda di lavoro, significativamente femminile e giovanile.

Per concludere: la considerazione che deriva da questa, volutamente brevissima, introduzione alla seconda sessione dei nostri lavori, va appalesata, perché costituisce un corollario da cui non è possibile prescindere.
E’ accaduto proprio così che il problema del Mezzogiorno, un problema nazionalenon certo per nostra convinzione o rivendicazione, ma per definizione, è progressivamente sparito dall’Agenda dei Governi del Paese (o vi è rimasto, ma solo nominalmente), fino a diventare un problema “dei meridionali” (sono essi, insomma, che devono provvedere a risolverselo).
Dunque, un problema ininfluente e marginale per il Paese che, anzi, secondo una teoria in voga, ha scoperto, prima teorizzandola, poi imponendola nella prassi di governo, una non meglio precisata “questione settentrionale”.
Oggi, dopo le elezioni nella Regione Lombardia, questo scenario risulta ulteriormente rafforzato.
Dunque, una storia, a ben vedere, che sintetizza ed evidenzia da che parte stanno, evidenziandole, le responsabilità politiche dell’intero sistema democratico e quelle, ahimè, non meno pesanti, della classe dirigente delle Regioni meridionali, quella politica in prima fila, a cui non sono state talora estranee anche le grandi forze sociali.
Responsabilità ancora oggi evidenti, che in 60 e passa anni di storia della Repubblica ed in 40 e passa anni di vita delle Regioni a Statuto ordinario (tralasciando i 90 anni trascorsi tra l’unità d’Italia e l’avvento della Repubblica), non sono state in grado di mettere in campo la giusta politica per assicurare all’Italia uno sviluppo armonico e socialmente equo, a partire dalle Regioni maggiormente svantaggiate, per avviare a soluzione il problema di cui oggi discutiamo.
E questo malgrado la preziosa ed encomiabile attività di studio e ricerca della SVIMEZ, unico faro in permanenza acceso assieme al CENSIS con passione e professionalità, sulla “questione meridionale”, che non ha mai cessato di registrare ed avvertire del progressivo aggravarsi della condizione delle popolazioni del Sud d’Italia e dei territori che esse abitano.

Arriviamo così ai nostri giorni: il rischio fallimento dello Stato,   la crisi di Governo dell’autunno 2011, il Governo dei tecnici guidato dal Presidente Monti ed il risultato elettorale che ci ha consegnato un nuovo, amaro, distruttivo progetto per come si preannuncia: “tutti a casa”, un progetto che se dovesse essere sostenuto dalla maggioranza dei parlamentari neo-eletti, potrebbe comportare un evidente e grande rischio per l’Italia e per la grande maggioranza del popolo italiano.
Proprio per quest’ultima, malaugurata ipotesi, credo che la nostra riflessione di cittadini che hanno fatto parte delle Istituzioni, organizzati per rendere al paese un esempio di volontaria, responsabile ed attiva partecipazione alla vita politica, non debba limitarsi a considerare soltanto le politiche necessarie per fare crescere il Mezzogiorno. Credo sia anche nostro dovere, in quest’ora particolarmente gravida di incognite e di  conseguenti grandi preoccupazioni per il futuro del Paese, allargare lo sguardo a ciò che proprio in questi giorni accade, confortati dalla “buona nuova” rappresentata dalla tempestiva elezione, avvenuta ieri, di Papa Francesco, il Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa,  per rintracciare ragioni di speranza e per manifestare le nostre preoccupazioni sul futuro dell’Italia. Penso, perciò, che ascolteremo con attenzione, ringraziandoli per il loro prezioso contributo ai nostri lavori, i valorosi studiosi ed esperti della “questione meridionale” che relazioneranno da qui a poco e gli altri interventi a seguire, prima di quelli conclusivi dei Sottosegretari di Stato al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Marco Rossi Doria e per i  Rapporti col Parlamento Giampaolo D’Andrea.
Penso che dopo la conclusione dei lavori, siamo già d’accordo col Presidente Bianco in questo senso, dovremo fermarci per condividere alcuni adempimenti, in particolare:

a.     un documento conclusivo dei nostri lavori;
b.    l’impegno da parte delle nostre Associazioni a dare seguito sistematico, nelle forme che saranno concordate, alla divulgazione della necessità ed urgenza di assicurare lo “Sviluppo dell’Italia a partire dal Mezzogiorno”;
c.    l’invio di un messaggio al Presidente della Repubblica per evidenziare, con la mente e col cuore, in questo momento particolarmente delicato per la vita istituzionale,  la nostra vigile preoccupazione per il futuro dell’Italia e la evidente condizione di grande sofferenza e disagio del popolo italiano, che attendono con fiducia che il Parlamento sia presto in grado di dare un Governo al Paese.

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