Prolusione del Dott. Grasso (Procuratore nazionale antimafia) alla XXVI inagurazione dell’anno accademico 2007 -2008 dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

NON C’È LEGALITÀ SENZA CULTURA

 
Magnifico Rettore, Autorità civili, militari e religiose, cari studenti, signore e signori,

ho accolto con deferente rispetto e con sincero e spontaneo entusiasmo l’invi­to a presenziare a questa solenne cerimonia, che segna l’inizio dell’anno accade­mico dell’Università Mediterranea.

Sono veramente onorato di avere la possibilità di svolgere qualche riflessione su un tema, come quello della legalità, insolito nel tempio di una Istituzione, l’Uni­versità, chiamata ad elargire cultura. Mi sono, però, ritrovato immediatamente in sintonia con il Magnifico Rettore, allorché mi ha espresso la sua convinzione, oggi ribadita, che una Università matura non può limitarsi a diffondere solo i principi della conoscenza, del sapere, dell’educazione alla libertà d’azione, tralasciando il contesto ambientale con cui gli studenti sono chiamati ad interagire, la realtà cala­brese, caratterizzata da una incombente presenza della criminalità, che li pone in una condizione di evidente svantaggio rispetto alle prospettive del loro futuro.

Del resto, non esiste cultura fuori della società e delle dinamiche interattive, che caratterizzano l’acquisizione e la trasmissione di conoscenze, di valori, la formazio­ne di idee, di attitudini e di competenze.

Non esiste cultura fuori della storia, se per cultura si intende quel complesso di manifestazioni della vita, materiale, sociale e spirituale, di un popolo in un dato momento storico. Manifestazioni che comprendono la conoscenza, le credenze reli­giose, l’arte, la morale, la legge, le tradizioni, i costumi e ogni altra abitudine e capa­cità acquisita dall’uomo, come membro della società.

Capacità non solo di apprendere, ma anche di trasmettere conoscenza alle gene­razioni successive, attraverso il linguaggio, il pensiero ed altri strumenti.

I giovani sono, da sempre, i più sensibili nel recepire tutto ciò che promana da scelte esistenziali forti, da esempi di vita. Ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri. Il maestro sale in cattedra addita una via, un ideale da seguire, il testimo­ne vive questo ideale sulla propria pelle, lo fa suo senza paura di mettersi sempre in gioco, di rischiare il tutto per tutto. Ad una opinione, ad una teoria se ne può con­trapporre un’altra, ma chi potrà mai confutare una vita, fatti e comportamenti con­creti? Ecco perché i migliori maestri, coloro che riescono ad infondere la "cultura", sono anche dei testimoni che con il loro esempio mostrano di condividere e prati­care le idee, gli ideali, i valori che propugnano. Cerchiamo, dunque, noi adulti di essere il più possibile credibili e coerenti per avvicinarci ad essere dei veri testimo­ni. La sfida di oggi è la sedimentazione culturale di quei principi che la mentalità mafiosa intende cancellare.
 

{mospagebreak}E dei giovani la voglia di cambiare il mondo, di combattere le ingiustizie, di rea­gire alle prepotenze ed ai soprusi, di contrastare le illegalità, ma in talune regioni del sud, purtroppo, la violenza, la frequenza dei reati, la presenza della criminalità organizzata, ancora oggi, rimane una componente strutturale di vaste aree, dove taluni cittadini sono costretti a vivere in condizioni di sudditanza, di intimidazione e di omertà, dove traumatico è il contatto con l’ambiente, con taluni quartieri, con la loro realtà di miseria, di disoccupazione, di carcere, di dolore e di morte, ove spes­so unica maestra di vita, soprattutto per i ragazzi cresciuti troppo in fretta, è la stra­da e non la famiglia o la scuola.

Da qui il pericolo del disimpegno morale, di frequenti comportamenti antiso­ciali, di mancanza di senso civico, accompagnato dalla diffusa tentazione di "farsi gli affari propri," in un quadro di totale sfiducia nelle Forze dell’Ordine, nei fami­liari e negli insegnanti, con il solo coinvolgimento del contesto amicale al precipuo fine di ottenere consigli, aiuti o complicità.

È venuto il tempo di una nuova alleanza, una nuova solidarietà, fatta di coeren­ti messaggi educativi tra chi produce formazione, cultura e chi produce legalità, con programmi alternativi e costruttivi, tendenti ad incanalare il sano desiderio di pro­tagonismo individuale nell’ambito universitario in partecipazione ad iniziative, incontri, confronti, in spazi che facciano sentire i ragazzi soggetti e non oggetti emarginati di questa società, che spesso li confina nell’isolamento ed in una preve­nuta ostilità generazionale.

Si tratta allora di lavorare su due piani, entrambi importanti e fortemente inte­grati fra loro. Anzitutto sul piano della cultura, perché se non riusciamo a interve­nire in tutti gli strati, dal popolare all’intellettuale, promuovendo una cultura con­vinta della necessità di superare ogni chiusura all’isolamento, alla separatezza, per giungere alla capacità di lavorare in squadra, di accogliere all’interno di questo lavo­ro l’alterità, la diversità dei suoi membri e questa diversità come ricchezza e non come pericolo, non saremo mai in grado di porre le basi di un reale mutamento di atteggiamento mentale per l’inizio di un’epoca più solidale.

{mospagebreak}Al concetto di "primo della classe", ancora così dominante, si sostituisca quello di "gruppo di lavoro" in cui il primo è capace di chinarsi anche sui soggetti più deboli, per trarne tutte le vitalità che anch’essi portano, se pure in misura minore.

Perché la legge della "reciprocità" prevalga su quella della "superiorità", senza cancellare per questo i doni personali che ciascuno ha, ma ponendoli al servizio di chi ci vive vicino e costituirà domani o il compagno di lavoro o il collega di professione.

In Calabria la ‘Ndrangheta è ancora oggi potere opprimente, privazione di liber­tà e di democrazia; la domanda di legalità registra alti e bassi, che oscillano tra le madri che chiedono di intervenire per salvare i loro figli dalla droga ed interi quar­tieri che cercano di evitare l’arresto degli spacciatori; tra le voci dei bambini che dalle scuole invocano il poliziotto di quartiere e la sempre più ampia diffusione del racket e della droga a strati sociali mai colpiti.

Ma qual’è il rapporto delle giovani generazioni con la legalità, quale percezione hanno i ragazzi dei fenomeni di tipo mafioso, della corruzione?

Nel nostro Paese assistiamo ad una grave crisi della legalità: è venuto meno il sistema dei valori, il senso etico. Le notizie, i dati, le informazioni riportate dagli organi d’informazione ci parlano di cattivi esempi, che portano a cattive imitazioni.

L’unanime consenso, anche in aule parlamentari, ad invettive contro la magi­stratura; l’esplicita ammissione che le pratiche clientelati, l’occupazione delle strut­ture sanitarie, l’interesse nei rapporti economici e negli affari sul territorio costitui­scono comportamenti normali a cui tutti si attengono; le opere pubbliche genero­samente finanziate, magari contese a colpi di tangente o di attentati, iniziate e mai completate con notevole spreco del danaro dei cittadini, costituiscono una realtà disperante, fonte di pessimismo, ma può far nascere soltanto momenti di disarmo, di resa e di rassegnazione? Perché questo è il pericolo.

{mospagebreak}Purtroppo ancora si registra un diffuso senso di rifiuto da parte di tanti cittadi­ni, tra i quali prevale un ragionamento del tipo: "lasciamo stare, non c’è niente da fare, la lotta alla mafia lasciamola alla polizia, alla magistratura"!

Così si corre il pericolo che il contrasto alla criminalità organizzata continui ad essere delegato a pochi eroi isolati, senza che la società si assuma le proprie responsabilità.

Non prendiamocela sempre coi ragazzi: l’affievolirsi delle coscienze ha delle rica­dute, esiste un mondo degli adulti che ha gravi responsabilità. In molte scuole, in tante università si costruiscono percorsi educativi sul rispetto delle regole, sulla con­vivenza civile e mi trovo spesso in presenza di spunti di riflessioni da parte di gio­vani che mi pongono domande sulla coerenza della classe dirigente, dei loro geni­tori, dei loro educatori. Tutto ciò porta nei più sensibili e consapevoli ad un senso di ribellione, che con difficoltà si riesce a frenare. I nostri ragazzi hanno bisogno di legarsi a modelli positivi.

L’impegno civile e politico diventa ogni giorno più difficile, soprattutto per i gio­vani, che, spinti verso naturali aspirazioni e ricerca di certezze per il proprio futuro, risentono oggi più che mai della progressiva riduzione dell’etica contemporanea, ridotta ad una mera fase di patteggiamento tra le istituzioni, partiti e le forze sociali. Una situazione che getta in uno sconforto quegli stessi giovani, che, per istinto natu­rale, cercano,invece, riferimenti e posizioni ideologiche certe su cui poter contare.

{mospagebreak}E necessario quindi che l’attuale isolamento giovanile, si trasformi in apparte­nenza generazionale, naturale filtro di un percorso di crescita e di cambiamento, per quella stessa società in cui bisogna stimolare sentimenti partecipativi e d’apparte­nenza. Ecco che l’essere giovani deve sottolineare, non solo una naturale condizio­ne fisica, ma, essenzialmente, un modo positivo e produttivo per confrontarsi con i fenomeni della vita.

Bisogna che i problemi ed il disagio giovanile diventino problemi e disagio del­l’intera società, di quella stessa società che deve ritrovare la dignità per rinnovarsi.

Così come siamo noi adulti che abbiamo la responsabilità della memoria.

 

I ragazzi di oggi all’epoca di certi fatti, come le stragi di Falcone e Borsellino, (sono passati circa 16 anni) erano dei bambini.

Quelle stragi hanno dato vita ad emozioni molto forti e diffuse, che hanno gene­rato le catene umane, la società delle lenzuola, un’eccezionale, meravigliosa parteci­pazione alla protesta contro la violenza, la barbarie di una mafia che fa saltare in aria rappresentanti delle istituzioni, colpevoli solo di avere fatto il proprio dovere, di una mafia che uccide bambini, preti, vittime innocenti.

La classe dirigente avrebbe dovuto cavalcare l’onda emotiva e riorganizzare le forze sociali per soddisfare le esigenze della comunità ed evitare che il peso degli interessi materiali individuali soffocasse l’impeto di rivolta morale.

Quando i cittadini non vedono risultati di efficienza e di benessere sociale, non vedono perseguiti interessi collettivi, non vedono trasparenza e pulizia morale, allo­ra sì che si rischia che prenda il sopravvento la delusione, la sfiducia, il declino etni­co, l’indifferenza, l’atavica rassegnazione.

La questione meridionale nasce dall’Unità d’Italia. I crediti del Sud sono enor­mi rispetto al Nord. Il Mezzogiorno continua a dare mano d’opera alle industrie del nord, costituisce area di consumo per i prodotti del nord, rimane un bacino eletto­rale che influenza il formarsi della maggioranza parlamentare e di governo del Paese.

Migliaia e migliaia di giovani del Sud intravedono nel loro futuro soltanto vio­lenza, sopraffazione e disoccupazione; costretti al clientelismo, al richiesta del favo­re, alla negazione dei più elementari diritti.

Per migliaia di ragazze e di ragazzi del Mezzogiorno, nel corso di decenni la poli­tica, lo Stato e la legalità non hanno sinora rappresentato né dignità né futuro.

Lo Stato deve ricostruire un rapporto di fiducia con queste generazioni.

La lotta contro la mafia non è separabile da nuovi principi regolativi della socie­tà meridionale. E mancata sinora la regolamentazione del lavoro, dei diritti, del­l’impresa. La mediazione politica e la mediazione mafiosa hanno sostituito nel sud le essenziali funzioni dello Stato e del mercato. Un’economia pubblica senza spirito pubblico e un’assistenza senza efficienza hanno devastato la società civile favorendo l’educazione al favore, alla clientela, alla fuga dalla responsabilità.

Molte aree del Centro e del Nord stanno subendo danni gravi per l’espandersi delle organizzazioni mafiose che proprio da queste politiche è derivato. Saldare quei debiti, coniugando finalmente la repressione con le politiche sociali e di effettivo sviluppo, non è solo un dovere verso il Sud, è una convenienza per tutto il Paese, perché la mafia in Europa e nel mondo è considerato il nostro principale fattore di arretratezza e non si può nascondere, negandone l’esistenza ed inaridendo le fonti d’informazione.

È ripreso il fenomeno dell’emigrazione, soprattutto giovanile, tanti giovani in maggioranza diplomati hanno sostituito i braccianti e gli operai generici degli anni 50 e 60. Dopo un periodo di precariato il 70% di essi trova un lavoro stabile, nelle regioni più industrializzate del centro-Nord, depauperando ancora di più della loro energia lavorativa e della loro fantasia e genialità il Sud, dove i precari ultra ven­tennali ormai esasperati sono diventati un problema di ordine pubblico.

In questo contesto è un fortuna se tanti giovani preferiscono emigrare anziché farsi attrarre, come tanti altri, che magari non hanno avuto la possibilità di studiare, da un forzato lavoro minorile o, peggio ancora, dal canto delle sirene della criminalità.

Perciò non basta contrastare la mafia. Bisogna ricostruire la democrazia nel Mez­zogiorno e rafforzarla nel resto d’Italia, con l’impegno di tutti: sia di coloro che rap­presentano gli interessi dei cittadini nei partiti, nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei movimenti, nelle associazioni di categoria, sia con l’impegno dei sin­goli, degli stessi cittadini.

L’antimafia diretta alla repressione della criminalità mafiosa deve perciò essere accompagnata dall’antimafia della correttezza della politica, dell’efficienza della pub­blica amministrazione, della scuola funzionante, delle regole del libero mercato.

Un partito, un governo, uno Stato che operasse in questa direzione merite­rebbe la fiducia dei cittadini, condizione essenziale per non ridurre la lotta con­tro la mafia a una guerra tra buoni e cattivi e per farle acquisire la dignità di un impegno per la conquista della libertà, della democrazia, di una maggiore giu­stizia sociale.

Non abbassiamo la soglia della coscienza dell’illegalità, non coltiviamo la rasse­gnazione, la neutralità, l’indifferenza soprattutto in posti dove l’unica lingua parla­ta è il silenzio.

Bisogna urlare che non riteniamo giustificabile la corruzione, i favoritismi, i compromessi, l’intimidazione, la violenza, il finanziamento illegale della politica, la compravendita degli appalti, l’appropriazione dei finanziamenti pubblici, lo svuo­tamento delle casse delle aziende pubbliche, il taglieggiamento di quelle private.

Perché il sangue di Falcone e Borsellino non sia stato versato invano si impone all’attenzione di tutti la costante presenza, la pericolosità e l’attualità del fenomeno mafioso. Il loro sacrificio rimane un monito alle coscienze di tutti gli italiani.

Perché sono morti? Erano dei sognatori, degli idealisti, degli utopisti? Forse! Certamente sono la testimonianza di chi ha pagato con la vita il sogno di un Paese migliore, liberato dalle troppe ingiustizie e illegalità.

Ci si voglia o non ci si voglia credere sono le utopie che fanno la storia. Si pensi ai grandi movimenti, come quello femminile, come quello della liberazione sessua­le, come quello della tutela dei minori, quello della centralità della persona, e si vedrà che l’aver difeso questi principi per decine di anni come utopia, in posizioni di mino­ranza, tutto ciò, e solo tutto ciò, ha portato alle vittorie democratiche di oggi.

L’utopia ha appunto una sua forza inarrestabile che cresce nella misura in cui qualcuno dimostra che vi è un mutamento possibile rispetto alla situazione che si vive in un dato momento storico. Perciò dobbiamo e vogliamo sperare che non solo le utopie del passato trovino sempre una nuova spinta per continuare a produrre il mutamento, ma che nuove ne sorgano nel terzo millennio, per portare avanti il cammino dell’umanità.

L’uomo, lasciato senza ideali, si riduce ad una creatura spinta da meri impulsi, abbandonando l’utopia perde la volontà di fare la storia e la capacità di comprenderla.

Ricordo quanto mi diceva un mio vecchio professore di storia e filosofìa: la qua­lità più importante che possiedono i giovani oltre all’entusiasmo è l’ingenuità. Alla mia richiesta di chiarimenti, mi spiegò: vedi i giovani, non ancora dotati del tipico scetticismo degli anziani, credono, nella loro ingenuità, che i loro sogni, le loro uto­pie siano realizzabili e ciò costituisce l’unica speranza che riescano a realizzare quel­le cose che per il resto dell’umanità appaiono impossibili.

I momenti più felici della civiltà occidentale sono stati quelli informati al dirit­to del dissenso.

L’aperta sfida a leggi universalmente accettate da parte di uomini quali Coper­nico, Galileo, Newton, Darwin ed Einstein hanno capovolto sistemi che appariva­no immutabili e, facendo così, hanno spianato la via al progresso.

Siamo nel terzo millennio in un periodo denso di minacce per il futuro della nostra specie e di quello delle altre specie animali viventi sul globo, per cui dico ai giovani: continuate a essere ingenui, come lo sono ancora io ed a credere nei sogni, nelle idee e nella speranza che si possano realizzare.

Ma attenti! Bisogna stare attenti alle utopie di oggi, ai sogni di oggi, bisogna far sì che i sogni rimangano ancorati ai veri valori della vita e non ad un orizzonte cul­turale che enfatizza il culto dell’immagine, dei soldi, della prestazione, del risultato a qualsiasi costo, e quindi il doping, la chirurgia estetica, il mito delle veline, dei calciatori e dei cantanti o dei partecipanti al Grande Fratello o all’Isola dei famosi.

Bisogna stare attenti perché un sogno del genere si trasforma in fragilità socia­le, in predisposizione a essere manipolati dalla demagogia, in passiva e inerte atte­sa del miracolo, del santo protettore, del principe azzurro sul bianco cavallo, del giustiziere che vendicherà i torti e instaurerà la vera giustizia, il regno della felici­tà, concedendo a tutti una libertà senza regole, senza valori, senza steccati da superare o da rispettare, fatta di piccole e grandi furberie, di enormi egoismi, di facili scorciatoie.

Stiamo attenti questo è l’orizzonte culturale che ci sta fregando, ci sta appiat­tendo, ci sta adeguando, tutti. E la mafia ringrazia, perché è il suo orizzonte cultu­rale moltiplicato per dieci, ma non è solo il suo ma anche quello di chi è potente, di chi persegue il preciso disegno di mantenere in eterno il disagio sociale, il biso­gno, la disoccupazione e tutte le altre calamità sociali, per potere poi intervenire, con una intermediazione interessata, per risolvere il problema del singolo ed otte­nerne il consenso, per gestire potere sui cittadini ridotti a sudditi.

Allora, auguro ai giovani di avere il coraggio di essere inadeguati oggi rispetto a questo orizzonte culturale, di impegnarvi nel costruire nella quotidianità una nuova dimensione.

Qual è il futuro di una società che non trasmette valori e fiducia ai giovani? Quale il futuro di una politica vissuta dai giovani solamente come luogo di relazio­ne clientelare?

Appare dunque questa la sfida della società italiana:"rieducare" la popolazione e formare una nuova classe dirigente. E chi lo può fare se non un esercito di educatori?

Perché, vedete, cultura della legalità è qualcosa di più della semplice osservanza delle leggi, delle regole; è un sistema di principi, di idee, di comportamenti, che deve tendere alla realizzazione dei valori della persona, della dignità dell’uomo, dei diritti umani, dei principi di libertà, eguaglianza, democrazia, verità, giustizia come metodo di convivenza civile.

La cultura, la conoscenza aprono la nostra mente alla riflessione ed al coraggio, al rispetto degli altri e alla tolleranza; ci rendono migliori, ci rendono più liberi. Nessun regime autoritario potrà mai fermare il nostro pensiero.

La legalità è la forza dei deboli, delle vittime dei soprusi e delle violenze dei ricat­ti del potere. Perché la mafia attenta a tutti questi valori, perché è violenza, sopraffa­zione, intimidazione, prevaricazione, collusione, corruzione, compromesso, contigui­tà complicità. La mafia è eclissi di legalità. Forte e diffuso è il rischio di un assordan­te silenzio, della disattenzione, dello sconforto, della rassegnazione, della rimozione, del rifugio nel mito di martiri ed eroi in una oleografia staccata dalla realtà di oggi.

Finché la mafia esiste bisogna ricordarlo, parlarne, discuterne, reagire. Il silenzio è l’ossigeno grazie al quale i sistemi criminali, la pericolosissima simbiosi di mafia economia e potere, si rafforzano, si riorganizzano.

I silenzi di oggi saremo destinati a pagarli più duramente domani, con una mafia sempre più forte, con cittadini sempre meno liberi.

Come Procuratore Nazionale Antimafia non posso che pensare alla repressione, con tutte le mie forze, con tutto il mio impegno, di tutti i traffici illeciti, di tutte le mafie nazionali e straniere, dovunque si trovino, ma oggi ho bisogno anche della collaborazione della società tutta e dei giovani in particolare.

Io sto dalla parte dell’antimafia concreta, dell’antimafia della repressione e del­l’antimafia che chiede consenso e aiuto a tutte le altre componenti della società, del­l’antimafia della speranza.

Oggi abbiamo la piena conoscenza della realtà sociale in cui viviamo e del suo condizionamento da parte di tanti fattori come la mafia e nessuno può più accam­pare alibi. Oggi si può, si deve, scegliere da che parte stare.

Per fortuna ci sono tante iniziative, tanti cambiamenti che lasciano ben sperare. Imprenditori che denunciano il racket, i giovani di Addio Pizzo, Confindustria sici­liana pronta ad espellere chi sottosta all’estorsione, una madre spinta alla collabora­zione con la giustizia dalle figlie educate dalle insegnanti alla legalità e cosi via. Pur­troppo si tratta di iniziative ancora isolate che devono coordinarsi coi tanti movi­menti antimafia, come Libera, la fondazione Falcone, la fondazione Caponnetto, Riferimenti in Calabria, ed altre iniziative del genere promosse nel Paese. Come i giovani di Locri che sotto lo sguardo perplesso, se non pavido, degli adulti, hanno osato scendere in piazza per ridare speranza e dignità ad una regione abbandonata come un vuoto a perdere e hanno urlato, rompendo il secolare silenzio: "ora ammaz­zateci tutti!!!" Un grido disperato per non fare cancellare del tutto la Calabria dai progetti dell’economia, della cultura, della politica, che è diventato, così l’ho inteso io, un inno alla resistenza: "siamo disposti a morire per non far morire la Calabria tutta". Questi giovani, che sono riusciti, insieme a quelli di Addio Pizzo, a quelli con­tro il racket e la Camorra, a creare una rete telematica, virtuale e virtuosa, tra i gio­vani di tutta Italia, sono la nostra Speranza. La speranza di riconquistare spazi per una forte azione antimafia nell’unità dei movimenti della società civile.

Allora cerchiamo questi spiragli di speranza di farli diventare brecce, dei varchi attraverso cui gli eserciti dell’antimafia riconquistino le posizioni perdute.

La magistratura, ben consapevole che non appena si allenta la presa, la morsa della repressione, il nemico riconquista le posizioni perdute, non ha mai mollato. Pur con alterne vicende, fortune, errori, successi, insuccessi, si è sempre distinta come testimonianza di un impegno, di un esempio, che possa far guardare ad essa come preciso e visibile punto di riferimento nel contrasto alla mafia.

Si sappia che noi magistrati andremo avanti a tutta forza. Ci impegneremo anco­ra di più nel nostro lavoro, con la massima professionalità, cercheremo di accelera­re anche di un sol giorno il lento procedere della giustizia.

Al Presidente della Corte di Assise che lo interrogava nel corso del processo per la strage di Capaci, Buscetta riferì che Falcone, a lui che prevedeva che sarebbe stato preso per pazzo e che non sarebbero sopravvissuti a quell’avventura, ripeteva sem­pre: "non importa dopo di me ci saranno altri magistrati che continueranno".

Dopo la strage di Capaci, Borsellino, sebbene fisicamente e moralmente distrut­to per la perdita del suo compagno ed amico Falcone, si assunse la sua pesante ere­dità con la precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo destino; aveva deciso di continuare e si era buttato senza un attimo di tregua nelle indagini, impo­nendosi ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro il tempo.

Questo il suo grande insegnamento: "Andare avanti pur sapendo quale desti­no ti attende".

Agli amici che gli consigliavano di andare via da Palermo, di mollare tutto, di far combattere ad altri la mafia, amareggiato, rispondeva: "Non è amico chi mi da questi consigli. Gli amici sinceri sono quelli che condividono le mie scelte, i miei stessi ideali, i valori in cui credo. Come potrei fuggire, deludere le speranze dei cit­tadini onesti".

In queste parole il senso della sua vita, dell’estremo sacrificio, che, con la morte, fa riacquistare una nuova vita, stavolta eterna, sempre presente nella memoria collettiva.

Il valore del sacrificio della vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino non si dovrà mai disperdere, ci lasciano un testamento spirituale, una pesante eredità, un patrimonio morale di equilibrio, di coraggio, di serietà, di rigore, di umanità e di professionalità, che oggi ci impegna tutti a continuare con tutte le proprie forze professionali, intellettuali e morali per tentare di rendere migliore il nostro Paese.

Noi magistrati ci siamo stati, ci siamo e ci saremo sempre nel contrasto alla mafia e a qualsiasi tipo di criminalità e di illegalità, nell’estenuante ricerca della veri­tà e della giustizia. Siamo noi quei magistrati, matti o utopisti, che ancora credono che in Italia si possa riuscire a processare, oltre ai mafiosi ed agli autori delle stragi, anche la mafia dei colletti bianchi, gli infiltrati nelle istituzioni, i corruttori di giu­dici, di pubblici funzionari e di politici, coloro che creano all’estero società fittizie per riciclare denaro sporco e tutte le illegalità anche le più piccole. Si sappia che noi magistrati andremo avanti a tutta forza. Ci impegneremo ancora di più nel nostro lavoro, con la massima professionalità, cercheremo di accelerare anche di un sol giorno il lento procedere della giustizia.

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