Quest’anno è stato caratterizzato da una serie di accadimenti che ne hanno implementato la complessità, primo tra tutti la coincidenza della cessazione della legislatura parlamentare col settennato di permanenza in carica del Presidente della Repubblica, due scadenze che creano, normalmente, momenti di forte tensione e contrapposizione nella vita democratica.Il 2013 è stato anche il 6° anno dall’inizio della crisi economica, sociale e finanziaria dell’intera Europa nel quale, in particolare in Italia, si sono avvertiti i pesanti effetti delle misure di contenimento della spesa pubblica e di aumento iniquo della pressione fiscale, adottati nell’anno precedente, che hanno procurato grandi sacrifici alle famiglie, alle imprese ed alle comunità.Non solo. Si è ulteriormente acuita anche la condizione di profonda crisi del sistema democratico afflitto da inefficienze, scandali e crisi di governo.Questo insieme ha confezionato per l’intera comunità nazionale una miscela esplosiva che ha messo a dura prova la tenuta democratica del Paese e fatto temere il suo fallimento e, con esso, la disintegrazione dell’Unione Europea, con le prevedibili disastrose conseguenze.La situazione ereditata dal 2012 (governo di emergenza presieduto dal sen. Monti dimessosi nel mese di dicembre) e l’avvio della campagna elettorale hanno caratterizzato l’inizio del nuovo anno.Si era sperato che le elezioni politiche in calendario a febbraio 2013 dessero un contributo di chiarezza e stabilità all’assetto politico-istituzionale,mettendolo in grado di affrontare in maniera concreta e coraggiosa la pesante crisi ed i suoi devastanti effetti sulla capacità produttiva del Paese, sulla crescita del sistema economico e sull’occupazione, previo avvio di una decisa azione di governo capace di aprire il cantiere delle urgenti e necessarie riforme costituzionali, istituzionali e sociali.Non è stato così. Come sappiamo, piuttosto che assicurare certezze per il futuro, il risultato elettorale per il rinnovo del Parlamento ha complicato talmente tanto la situazione del sistema democratico, fino a rendere impraticabile la elezione del Presidente della Repubblica. Come ricordiamo, infatti, nessuna delle coalizioni concorrenti alle elezioni è stata in grado di conseguire la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento, né di realizzare intese politiche capaci di sbloccare lo stallo determinatosi nella vita istituzionale.La preoccupante emergenza venutasi a creare, dopo che ben due tentativi di eleggere il Presidente della Repubblica sono andati a vuoto (candidature Marini e Prodi) ha convinto la maggioranza delle forze politiche a richiedere al Capo dello Stato uscente la disponibilità ad accettare il re-incarico, cosa mai accaduta nella storia della Repubblica,conferito poi dal Parlamento riunito in seduta comune a Giorgio Napolitano nella seduta del 18 – 20 aprile.E’ stato così che è stato risolto l’ingorgo costituzionale e si è potuto procedere alla formazione del Governo Letta, sostenuto in Parlamento da PD – PDL e Scelta Civica, che ha prestato giuramento il 28 aprile.Si è conclusa così la più tormentata fase della vita istituzionale dall’avvento della Repubblica, una conclusionesulla quale è doveroso fare qualche considerazione.Gli ultimi dieci anni di vita della Repubblica Italiana (Governi Berlusconi 6 anni, Prodi 2 anni Monti e Letta) sono stati anni che definire difficili è davvero un eufemismo.Sono stati, infatti, anni di progressiva e perdurante recessione economica, di retrocessione e perdita di competitività del sistema Paese, di perdita di posti di lavoro, di preoccupante crescita della disoccupazione giovanile, di decrescente prestigio dell’Italia all’interno ed all’esterno delle istituzioni internazionali.Negli ultimi 5 anni, infine, come certifica l’ISTAT, si è verificato il raddoppio della povertà assoluta degli italiani (da 2,4 a 4,8 milioni di individui).Il Paese arranca negli ultimi posti delle classifiche all’interno dell’UE e questo ha generato nell’Unione il convincimento che il punto debole della ripresa dell’Europa sia costituito in generale dai Paesi del Sud, ma in particolare dall’Italia, che attesa la sua dimensione finanziaria ed economica, non potrà essere salvata da altri e se, dunque, non sarà in grado di salvarsi da sola, finirà col trascinare nel fallimento l’intera Europa.Proprio a questo riguardo, mi sovviene e desidero qui riportare quanto affermato il 25 Ottobre scorso, nel corso della sua prolusione in occasione del ricevimento da parte dell’Università “Bocconi” di Milano del titolo di ‘Alumnus dell’anno’ da Joerg Asmussen, membro del consiglio esecutivo della Banca Centrale Europea.“Il destino dell’intera area euro – ha affermato Asmussen – dipenderà dall’Italia e non dalla Germania o dalla Francia, né dalla Bce o dalla Commissione europea. L’Italia è troppo grande per essere salvata dall’esterno: deve invertire da sola la marcia. Il suo destino segnerà anche il destino dell’area dell’euro. In questo senso il futuro dell’area non si deciderà a Parigi o a Berlino, né a Francoforte o a Bruxelles. Si deciderà a Roma”.Il consigliere Bce, tuttavia, si è dichiarato, comunque, non preoccupato per il futuro dell’Italia e della Zona euro ed ha aggiunto: “Il vivace spirito imprenditoriale di questo paese, la creatività apprezzata a livello mondiale, la forza della sua società civile e dei suoi cittadini, il sistema educativo con istituzioni quali la Bocconi ed ora, forse, l’evoluzione di un nuovo sistema politico, sono risorse promettenti”, auspicando “che gli italiani si uniscano a sostegno di questi sforzi, perché le riforme porteranno alla crescita, che a sua volta consentirà di mantenere la sostenibilità del debito, e la crescita potrà poi essere condivisa da tutta la società”.E’ vero che il quadro di partenza rimane molto impegnativo perché la zona euro “non può prosperare se la sua terza economia registra un tasso di crescita potenziale pari a zero” ha sostenuto Asmussen ed ha ricordato l’andamento discendente del tasso di crescita reale dell’Italia negli ultimi 60 anni: 5% negli anni Cinquanta, 4% neglianni Sessanta, 3% negli anni Settanta, 2% negli anni Ottanta, 1% negli anni Novanta e zero negli anni Duemila. Avviandosi a concludere il suo intervento, Asmussen, infine, ha affermato: “L’Italia deve crescere,ma questo non accadrà restando in attesa di una svolta nel ciclo economico. L’Italia si trova dinanzi a sfide di lungo periodo e la soluzione risiede in interventi strutturali”, ribadendo la necessità di un’Italia che migliori in proprio e non attenda l’effetto positivo di una ripresa economica a livello mondiale.Quel che è mancato in questa dotta esposizione è stata la parola solidarietà, che l’Unione non può né ignorare, né abolire dal contesto dei Trattati, che pure la usano e che in casi meritevoli è stata anche praticata, come raccontano i fatti della vita istituzionale europea. Giusto per non dimenticare la solidarietà praticata quando si è trattato di venire incontro alla Germania per favorire la sua unificazione ed alla Francia quando si è trattato di allungare i tempi a sua disposizione per superare momenti di difficoltà.E’ vero che l’Italia ha sperperato nel passato trentennio e che il suo debito pubblico costituisce la pesante palla al piede per uscire dalla crisi, ma l’Europa ha il dovere che deve avvertire come un vincolo solidale, quando un singolo Stato accetta e dimostra di voler fare la propria parte, di predisporre in tempo di pace, strumenti e regolamenti capaci di intervenire in ausilio nei momenti di estrema difficoltà .Tra mille difficoltà gli italiani, oggi, stanno facendo in questi ultimi anni grandissimi sacrifici e, dunque, non meritano di essere lasciati soli, come non lo merita nessuno degli Stati membri in difficoltà, che dimostri con i fatti, con piani e programmi cogenti, di fare la propria parte.Si tratta di una sfida che chiama in causa l’intero sistema democratico italiano, assieme all’intera classe dirigente del Paese.Quella che il Paese attraversa non è una crisi congiunturale, ma strutturale, che domanda, per accreditare speranza di successo, coesione nazionale, stabilità politica, capacità di governo, mirate alla costruzione del bene comune a servizio del Paese. Questo obiettivo merita i sacrifici richiesti al popolo italiano a condizione che la sua rappresentanza politica avverta il dovere di abbandonare l’interesse particolare per sposare la causa di quello generale dei cittadini,delle imprese, delle Comunità, dei territori, da perseguire talvolta, o spesso, a secondo delle sensibilità, anche in contrasto con gli interessi di casta, di parte o di partito.Detto questo, a me pare che la nostra riflessione, da proporre all’interno dell’Unione Europea a tutti gli Stati che ne fanno parte, debba andare oltre per domandare e domandarsi qual’è il punto di caduta e di compatibilità delle politiche europee con la condizione degli Stati membri.L’idea di uno sviluppo senza limiti e ad ogni costo, di un capitalismo sfrenato a servizio del profitto, non del benessere della collettività, temo non sia un’idea che si possa coltivare, anche perché profondamente conflittuale con i principi ed i valori contenuti nella nostra Carta Costituzionale. Riflettendo, penso che sia maturo il tempo per rivisitare il senso della locuzione “meno Stato e più mercato”. Lo Stato non ha soltanto diritti nei confronti dei cittadini, ma anche dei doveri. L’Italia e l’Europa non possono essere solo finanza, economia e ricchezza; la loro missione non ha questi limiti. La Repubblica Italiana e non solo essa, come recita il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, ha il compito di “…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ma giorno dopo giorno i gesti e la parola inequivocabile di Papa Francesco, il Papa preso ai confini del mondo, la sua suadente capacità di comunicare anche con gli strumenti più avanzati, hanno riportato serenità e santità, oltre che sicurezza, nella gestione delle difficoltà e nel cammino della Chiesa.
E’ tempo che anche i governanti meditino ed ascoltino quel che proviene dalla Cattedra di Pietro, trovando il modo, ciascuno all’interno delle proprie responsabilità e delle proprie coscienze, di agire con serietà e lungimiranza per realizzare il tanto atteso bene comune.
La mia riflessione si ferma a questo punto. Della Calabria e della nostra Associazione ne parleremo sul prossimo numero di “OPINIONI CALABRIA”, la nostra Agenzia di informazione.